Il famoso storico e divulgatore Alessandro Barbero spesso dice che abbiamo la tendenza ad “appiattire” la Storia, senza magari realizzare che Cleopatra e Giulio Cesare siano più vicini al nostro tempo che a quello della costruzione delle piramidi egizie.
Harari va nella direzione diametralmente opposta: Sapiens è uno sviluppo longitudinale della Storia, che illumina, dà prospettiva e aiuta a mettere in fila 70'000 anni di civiltà.
Ogni tanto ho avuto l'impressione che il libro si perdesse in qualche mulinello speculativo e che l'autore stesse mescolando forse eccessivamente fatti oggettivi e comunemente accettati con opinioni proprie, senz'altro educate ma pur sempre soggettive.
Non che sia un male, chiaramente, ma da un saggio divulgativo credo sia lecito aspettarsi una forte attinenza ai fatti e ad un'evidente sottolineatura delle incertezze.
Quel che è più probabile è che questa sia solo un'impressione, dovuta forse alla profonda condensazione di millenni di Storia. In effetti, l'elevato numero di fonti in fondo al volume e sul sito dedicato sono lì a testimoniare l'enorme lavoro di ricerca dietro alla stesura.
Certamente il compito di concentrare così tanto in sole 500 pagine è un po' ingrato e il libro molto spesso si muove più per concetti piuttosto che in rigida cronologia.
Eppure anche questa scelta aiuta ed motiva il pensiero dei lettori meno abituati a riflettere sulle incoerenze, le complessità e i significati della Storia.
Alcuni capitoli sono veramente affascinanti, in particolare il trittico sul denaro, gli imperi e, sopratutto, le religioni. Molto spesso è difficile prendere le giuste distanze da eventi e ideologie che più o meno direttamente condizionano e definiscono il nostro tempo. Eppure Harari, da grandissimo divulgatore e pensatore quale è, riesce a tessere un filo di ragionamento rigoroso, quasi oggettivo, il più possibile distaccato e mai cinico, anche quando indaga il mondo in cui vivono dei suoi lettori.
Tutta la parte sulla Rivoluzione scientifica, per interessi e attitudini, è senza dubbio quella più nelle mie corde. È interessante scoprire quante delle convinzioni che hanno condizionato, condizionano e continueranno a condizionare la mia vita, fossero così aliene e addirittura impensabili solo pochi decenni o secoli fa.
Di nuovo, Sapiens è un libro che mette tante cose in prospettiva, a partire dalle ideologie/religioni che definiscono il nostro tempo e la nostra realtà, per nulla scontate ma piuttosto il frutto straordinario di passaggi storici anche casuali.
L'aspetto più affasciante è che ogni capitolo è solo la parte esterna della tana del Bianconiglio e meriterebbe un volume di approfondimento a parte.
Per quanto l'ultimo capitolo sulla fine dei Sapiens non mi abbia catturato fino in fondo, sono comunque curioso di proseguire la lettura dei suoi altri due libri più famosi.
Homo Deus, in particolare, sembra il “seguito” ideale di Sapiens, forse più speculativo in quanto parla del futuro, ma non per questo meno interessante.
(Piccola nota a margine per la bellezza e l'eleganza della copia di Bompiani, secondo me il miglior editore in Italia.)
Ottimo thriller, tra i migliori che abbia mai letto.
La prosa di Thilliez è fantastica, perché sa essere estremamente coinvolgente e anche molto scorrevole. Durante la lettura sembra di tagliare del burro con un coltello e i capitoli si leggono quasi da soli.
Venendo al racconto, l'autore riesce a creare un grande puzzle e a seminare piccoli indizi in ogni pagina.
Il romanzo è ricco di dettagli, depistaggi, eventi e il ritmo è sempre incalzante.
Dopo il primo centinaio di pagine un po' più posate, la storia esplode in un continuo susseguirsi di domande e risposte, scene macabre e colpi di scena.
Certo, la struttura e le premesse rimangono sostanzialmente quelle del più classico dei thriller, a cui si aggiungono i temi della memoria, dell'ossessione e del doppio.
Ma la realizzazione è talmente ponderata e ben dosata, che credo che qualunque amante di gialli (e non) non possa che amare questo libro.
Una parola sul finale.
Nel contesto del racconto, gli ultimi due capitoli sono posticci, un tentativo di conclusione del figlio dell'autore del romanzo nel romanzo.
Ecco, non l'ho apprezzato particolarmente perché si limita a spiegare alla rinfusa e a conciliare tutti i punti rimasti aperti.
Nel sequel, “C'era due volte”, sono presenti le ultime pagine “originali” del Manoscritto scritte da Caleb Truskman (sempre nella finzione del racconto).
Questo finale è, secondo me, molto più interessante e coerente con il resto del romanzo, pur mantenendo la sostanziale soluzione dell'enigma.
E per quanto la soluzione sia un po' troppo fantasiosa per i miei gusti, ho sicuramente apprezzato se sia arrivata inaspettata.
Insomma, un thriller imperdibile, che inevitabilmente impedisce ogni tentativo di moderare la lettura.
L'ho divorato in quattro giorni e solo perché il resto del tempo dovevo studiare.
Ora sotto con il prossimo.
Ottimo thriller, secondo me anche più bello de “Il Manoscritto”.
Per diversi capitoli ho temuto che ripercorresse fin troppo pedissequamente le vicende del primo romanzo e invece, pur mantenendone la struttura generale, riesce a svincolarsi in maniera intelligente dalle svolte narrative che avevano caratterizzato le vicende di Léane e Vic.
Un po' meno macabro del precedente, almeno superficialmente e almeno fino all'agghiacciante finale, ma comunque terribile e disturbante.
Thilliez è bravissimo a costruire le indagini a forma di labirinto, in cui ogni progresso è una piccola ricerca del percorso corretto in mezzo a tanti vicoli ciechi.
Ogni capitolo sa essere un soddisfacente colpo di scena e la storia è densissima di eventi, complice un ritmo incalzante che tiene incollati fin dalle primissime pagine.
E se da un lato avevo trovato la soluzione finale all'enigma de “Il manoscritto” un po' fantasiosa e anticlimatica, “C'era due volte” è continuo crescendo in cui ogni rivelazione mantiene la tensione e soffia sul fuoco della curiosità.
L'ultimo mistero rimasto irrisolto è dove Poste Italiane abbia perso la mia copia di “Labirinti”.
« Ruin was dead, but the world was still ending. Sazed had thought that Vin would save them. Honestly, so had Kelsier. But it seemed there was yet another secret. »
I am, unfortunately, in tears, I think.
“Nella quarta dimensione” è un libro magnifico, che non potrebbe esistere senza i precedenti due ma che eleva tutta la trilogia.
Avevo apprezzato, ma non fino in fondo, “La materia del cosmo” e forse nemmeno questo terzo capitolo può dirsi il mio preferito della serie. “Il problema dei tre corpi”, nonostante una parte finale un po' trascinata e didascalica, sapeva essere travolgente in maniera unica.
Eppure non posso che adorare la coerenza e la compiutezza che “Death's End” (titolo molto più evocativo rispetto a quello italiano) porta a tutto il racconto.
Beninteso, sebbene la prosa di Liu Cixin sia nettamente migliore, ha sempre il piccolo vizio di “spiegare” anziché mostrare e raccontare. La densità di dettagli e di nozioni (pseudo-)scientifiche ovviamente mette(rebbe) a dura prova l'intuizione del lettore, che talvolta deve essere aiutato e guidato. Ma ogni tanto ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte ad un libro di storia e non ad un romanzo.
Detto questo, “Nella quarta dimensione” è un enorme e fantastico esercizio creativo e immaginifico.
Spesso la fantascienza si pone in un presente alternativo o in un tempo molto lontano rispetto a noi, in cui magari il cosmo è già stato colonizzato ed esiste una qualche forma di stabilità diversa da quella che conosciamo.
Ciò che ho sempre apprezzato di questa serie è l'ambizione di affrontare le premesse più complesse e difficili da immaginare, legate ad un futuro molto prossimo in cui ci viene tolto il tappeto da sotto ai piedi.
Ovviamente molti degli aspetti della fisica e della scienza del racconto non sono né veri né verosimili, ma sanno essere credibili, che è la cosa più importante. Qui, il background da ingegnere dello scrittore aiuta molto.
Tutta la trilogia e in particolare questo libro immaginano in maniera credibile il nostro prossimo passo alla scoperta del mondo oltre la nostra Terra, dai primi contatti con altre civiltà alla sempre più profonda consapevolezza di quanto siamo piccoli, fragili e indifesi.
Il cuore di tutto il racconto conserva anche un'innato desiderio di seguire e osservare il progresso scientifico e tecnologico. Da ingegnere, più volte nel corso della lettura ho desiderato anche io di dormire per qualche secolo e sbirciare avanti nel tempo, con la speranza che almeno la nostra Storia non venga sigillata da sofoni o minacce aliene così terribili.
Il racconto è anche una lunga parabola sull'arroganza dell'essere umano, e dal mio punto di vista Cheng Xin ne è l'esempio più vivido, diventando a tratti quasi un villain.
Il romanzo e in particolare le ultime cento pagine, sono un condensato di rassegnazione e depressione di fronte all'inevitabile fine a cui è destinata la nostra civiltà fin dal controverso scambio di messaggi di Ye Wenjie.
A ritroso, pensare che la Rivoluzione Culturale cinese sia stata il primo sassolino di una valanga durata secoli e che ha portato alla rovina almeno due civiltà su scala cosmica dà il senso dell'ampiezza del respiro di questa storia.
Ecco, il respiro è forse l'aspetto più affascinante di “Memoria del passato della Terra”. Per quanto si focalizzi su una manciata di personaggi, tutto il racconto è coeso, a distanza di anni luce e di secoli.
Ogni balzo temporale è caratterizzato da un punto di vista tecnologico e soprattutto sociologico.
Ogni balzo scientifico è giustificato dalle necessità e dalle emergenze contingenti.
Ogni scoperta si confronta, con una giusta e inevitabile dose di fantasia, con la fisica che conosciamo oggi.
Immaginare con cognizione di causa non solo l'incontro con una civiltà aliena, ma anche il contesto in cui esso avviene è ai miei occhi uno sforzo d'immaginazione veramente immenso.
Immaginare le dinamiche di un universo oscuro, ostile e misterioso e stimare la distanza tecnologica tra noi e il resto della foresta oscura è ancora più difficile.
In questo senso la fiaba di Yun Tianming è forse il momento più alto di tutto il romanzo, perché esplicita la profondità delle capacità creative dello scrittore e congiunge le necessità narrative del racconto con quelle esegetiche del personaggio.
Insomma, questo non era un libro semplice da scrivere e Liu Cixin è riuscito in un piccolo miracolo.
L'imminente adattamento di Netflix è il motivo per cui sono qui (altrimenti non credo avrei mai scoperto questi libri), ma in cuor mio sono convinto che l'animazione sia l'unico modo per rendere veramente giustizia allo scopo e al potere immaginifico di questa storia, oltre alle parole su carta stampata.
Quello che mi rimane, al termine di queste letture, è un grande senso di meraviglia e una sete di scoperta, accompagnata anche dall'amara consapevolezza che “il tempo è la forza più crudele di tutte”.
“Memoria del passato della Terra” è probabilmente una delle mie trilogie preferite.
Sento già ora la necessità di tornare indietro e ricominciare dal primo capitolo per apprezzare fino in fondo la complessità di questa storia.
Nonostante non abbia amato tutti gli aspetti dei tre libri, ciò che mi ha affascinato lo ha fatto profondamente.
Ho trovato “Vertigine” il romanzo meno interessante di Thilliez, tra quelli che ho letto.
Non è un brutto libro e il mistero, tutto sommato, intrattiene, specialmente nella seconda parte. Però questa “bottle story” diluisce un po' troppo le svolte narrative, e la struttura da thriller psicologico e di sopravvivenza non riesce a riproporre la stessa affascinante complessità degli altri intrecci costruiti dall'autore francese. In questo senso, avrei forse preferito che la storia si sviluppasse come un'escape room tra le pagine, piuttosto che un viaggio nella psiche dei tre prigionieri.
Il finale è soddisfacente, ma qualche soluzione ai vari enigmi seminati non mi ha pienamente convinto.
Rimane un buon libro, che tiene incollati fino alla fine, ma che non mi ha coinvolto quanto avrei voluto.
L'aspetto più interessante di questo libro, per me, è la capacità di risvegliare una sete di fantascienza che credevo di aver perduto.
Se passerò le prossime settimane immerso nella lettura del terzo capitolo, nel rewatch di Blade Runner e nella tentazione di iniziare The Expanse, invece di studiare per l'esame di fine agosto, sarà esclusivamente colpa de “La materia del cosmo”.
In merito al romanzo, non nascondo di aver preferito (ampiamente) “Il problema dei tre corpi”, per ritmo, efficacia degli intrighi e respiro creativo del racconto.
Eppure è innegabile la coerenza, ancora prima del senso di soddisfazione, che questo libro raggiunge nel finale.
“La materia del cosmo” richiede pazienza, intanto perché introduce una quantità sterminata di personaggi che rende difficile tenere il filo. E poi perché l'intreccio è enigmatico, soprattutto all'inizio, nel tentativo di preparare il terreno per ciò succede negli ultimi capitoli.
Insomma, ribalta un po' gli aspetti che avevo apprezzato del primo capitolo, che ha un inizio travolgente e oscuro e un finale comunque interessante, ma meno particolare e entusiasmante.
Il cinismo che dilaga e domina buona parte del libro, raccontando di un'umanità rassegnata, disperata, ma anche arrogante e piena di sé, in lotta con se stessa ancora prima che con i Trisolariani e ricca di contraddizioni.
Tutto il finale, da quando la Goccia raggiunge la flotta umana a quando alcune navi fuggono e si distruggono tra loro, è semplicemente straziante.
Mi ha colpito anche la portata, narrativa e tematica, del racconto, che si regge su una riflessione con una certa cognizione di causa circa il contatto con altre civiltà.
Sarebbe stato facile appoggiarsi ai soliti tropi già esplorati dalla fantascienza, e annacquare con superficialità critica.
E invece l'approccio è serio e rigoroso, quasi scientifico da un punto di vista sociologico (per quanto possa capirne io di sociologia).
Insomma, è un buon libro.
Eredita i difetti di scrittura del primo romanzo e non è così divertente da leggere, almeno in senso stretto.
Ogni tanto si perde un po' nell'intenzione di inserire qua e là concetti ingegneristici o informatici senza la dovuta rielaborazione, ma fa parte del gioco.
E contestualizzato nella trilogia, promette una portata ancora più ampia per il gran finale.
Premessa: mezzo commento sarà senza spoiler, mentre il resto entrerà nel dettaglio di qualche passaggio del romanzo. In ogni caso, scriverò prima un grosso “SPOILER”.
Ho pensieri molto contrastanti su questo “Labirinti”.
I primi due terzi del libro mi stavano convincendo poco poco, perché mancavano di quel quid misterioso e intrigante che rendeva ogni capitolo dei prequel così avvincenti.
Fino al finale, non succede granché e più volte mi sono chiesto perché l'autore avesse deciso di spendere così tante pagine su tre linee narrative di dubbia utilità.
In buona sostanza, manca l'indagine che aveva dato struttura e coerenza a “Il manoscritto” e a “C'era due volte”. E soprattutto manca un buon mistero che giustifichi l'eventuale indagine.
A tal punto che sembra quasi evadere i confini del genere thriller per sfondare quelli del drammatico.
Questo vuol dire che è un cattivo libro? No, certamente no.
Tutto ha senso, ad un certo punto. Forse un po' tardi, quando l'attenzione è già andata in parte perduta, ma non posso certo dire di essere rimasto insoddisfatto.
La mia opinione, però, è che questo romanzo abbia senso solo come ultimo capitolo della trilogia. Se i precedenti due potevano, in qualche modo, essere letti in ordine inverso, questo dipende fortemente da ciò che il lettore dovrebbe già conoscere.
In questo senso è la naturale conclusione di una storia complessa, avvincente, spesso raccapricciante e raccontata magistralmente.
Da qui in poi, SPOILER!
Per spezzare una lancia in favore dell'autore, il mistero questa volta è più piccolo e non lascia possibilità di essere risolto un capitolo alla volta. La sua soluzione deve essere dirompente e arrivare al lettore tutta in una volta, o quasi, e certamente non a metà romanzo.
Insomma, forse sacrificare duecento pagine sull'altare del colpo di scena è un po' eccessivo, ma non si può fare altrimenti.
E comunque anche i primi due terzi hanno il loro fascino e sarebbe forse ingeneroso paragonarli alle eccellenze dei due prequel.
Quel grande colpo di scena può anche arrivare atteso, ma ha il grande pregio di dare compiutezza a tutta la storia e sollevarla (leggermente) da quell'amarezza e cupezza che l'aveva contraddistinta fin qui.
Sia chiaro, il finale non è necessariamente felice, ma sa dare soddisfazione laddove gli altri due libri cercavano di provocare disagio e sconforto.
Nonostante il mio preferito della trilogia continuerà ad essere “C'era due volte”, ci sono tante cose che ho amato di “Labirinti”.
Tra tutte, le numerose citazioni a Christopher Nolan: dal personaggio quasi omonimo e citato un paio di volte al Robert Angier che esce da The Prestige e diventa fan di un decerebrato, alla struttura stessa del romanzo che viaggia su linee temporali differenti e ricuce prologo ed epilogo, un po' come in Memento.
Ma anche alcune vibes da Twin Peaks, che già erano suggerite nel precedente libro e che qui tornano con un Jacques Renaud che assomiglia tanto al Jacques Renault del One Eyed Jacks (ma ammetto che potrebbe essere una coincidenza non voluta).
C'è anche tanta mitologia greca, con Arianna e il Minotauro che fanno capolino ogni tre per due, senza però mai incontrare Teseo. (Anche qui, punto di partenza comune ad Inception.)
E infine quell'ultima pagina nel penultimo capitolo, in cui l'ultimo scontro tra Julie e Caleb mi ha ricordato molto la dolorosissima scena “Oh, baby girl...” di The Last of Us.
Insomma, è un buon thriller e un ottimo libro.
È radicalmente diverso dai primi due capitoli, sia come impalcatura narrativa sia come ruolo all'interno della storia trasversale, ed è forse più un pregio che un difetto.
È indubbiamente imperdibile per chi è già a due terzi della trilogia, perché verosimilmente chiude le vicende legate a Caleb Traskman.
E anche se fa all-in sulle ultime ottanta pagine, quel finale vale tutto il romanzo, più di quanto avrei immaginato nel mezzo della lettura. Non è poco.
Thilliez è un maestro nel costruire labirinti e seminare indizi.
Alcuni di essi si trovano addirittura su libri diversi, che avevano anticipato ciò che sarebbe successo nei sequel, un po' come i membri della società segreta che lasciano in piena vista i prodotti della loro depravazione e dei loro crimini.
Ogni capitolo, con rara maestria, cela un inganno e la soluzione all'enigma stesso, e alimenta quel senso di soddisfazione che solo la migliore suspense sa generare.
Ancora una volta, è un gran libro, che ogni tanto mi ha fatto storcere il naso ma che in fondo ho apprezzato molto.
Non vedo l'ora di leggere il prossimo.