Un punto per lo stile della scrittrice e uno per la descrizione psicologica della protagonista. Per il resto non mi ha entusiasmato: nessun colpo di scena, nessun brivido, nessun sussulto. C'è a chi è piaciuto proprio questo, un senso di inquietudine carico di aspettativa che ti tiene con il fiato sospeso fino all'ultima pagina senza farti mai lanciare un grido. Io ci sono arrivata, forse, con un po' troppe aspettative che (ahimè) non sono state soddisfatte.
Mi ricorderò di Camere separate come di un lungo viaggio a due, mano nella mano, senza cartina né punti di riferimento. Un viaggio dove la meta non si intravede alzando lo sguardo ma chiudendo gli occhi, seguendo i puntini luminosi che compaiono dietro le palpebre. Un viaggio dove la mano che stringi e ti stringe non è sicurezza, quiete, conforto ma desiderio, tensione, ricerca. Un viaggio che non finisce con l'ultima pagina perché le parole sono penetrate in ogni fibra del corpo e ora lo coprono come una seconda pelle.
Bello ma non eccezionale. La narrazione è un po' lenta rispetto ad altro che ho letto di suo. Ho scoperto l'autrice con uno dei suoi ultimi romanzi e ho voluto riprendere anche i primi, ma indubbiamente quelli più recenti sono più avvincenti a mio avviso.
Il merito più grande di Baricco, a mio parere, è quello di saper tratteggiare con la sua penna personaggi che rimangono nel cuore. Mi è successo con Bartleboom e Plasson di Oceano mare, una delle coppie più belle e azzeccate di sempre. È capitato di nuovo con Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento (si, sono in grado di ricordarmi il suo nome per intero e questo costituisce di per sé una prova del fatto che ho amato questo personaggio alla follia). Fidatevi, una volta fatta la loro conoscenza tra le pagine dei libri vorreste poterli incontrare nella vita reale.
Vi basti questo, perché è dura parlare di un libriccino così piccolo senza lasciarsi sfuggire qualcosa. Ma datemi retta: se ancora non lo avete fatto prendetevi un'ora di tempo per leggere queste 62 pagine; volano in un soffio ma rimangono dentro a lungo. E avrete una nuova (buona) storia da raccontare.
2,5
Sono assolutamente convinta del fatto che la delusione provata verso alcune letture sia dovuta in gran parte alle attese che nutriamo nei loro confronti. In fondo, quando scegliamo di leggere un libro è perché stiamo cercando qualcosa e speriamo di trovarla proprio tra quelle pagine. Se la lettura non ci lascia soddisfatti significa (anche) che la nostra ricerca non è andata a buon fine. È quello che mi è successo con questo romanzo di Miri Yu, dal quale mi aspettavo qualcosa che, però, non ho trovato.
Mone è una ragazzina riservata e schiva, ha una famiglia che sta per rompersi in mille pezzi e un gruppo di amiche da cui non si sente affatto compresa. Si sente invisibile e vorrebbe scomparire una volta per tutte; perciò, un giorno decide di aprire un thread online grazie al quale cercare “compagni di suicidio”. Di queste chat mi ha colpito la leggerezza dei toni e delle argomentazioni, l'ineluttabilità delle decisioni, il senso di vuotezza e vacuità che traspariva da ogni parola. Mone, che pure grazie al forum riesce ad accordarsi con altre tre persone, non è del tutto convinta che morire sia la scelta giusta e continua a interrogarsi fino al giorno dell'appuntamento:
3,5
Definitivo: dovesse andarmi tutto male nella vita aprirò una mia Taverna di mezzanotte.
“Il mio locale è aperto da mezzanotte alle sette del mattino: per questo motivo è conosciuto come la Taverna di mezzanotte. Se ho clienti? Abbastanza, direi”.
Così il Maestro fa gli onori di casa e ci invita a entrare nel suo locale. Subito dopo spiega come funzionano le cose da lui: “Provate a ordinare quello che vi va e io ve lo preparerò, se ho tutti gli ingredienti. Questa è la mia politica aziendale”.
A quanto pare è una strategia che funziona dato che, tra clientela fissa e avventori occasionali, il ristorantino è sempre pieno. Il Maestro è indubbiamente un cuoco bravissimo (davanti alla descrizione di alcuni piatti ho iniziato a salivare come i cani di Pavlov), ma il suo vero punto di forza è quello di saper ascoltare i suoi clienti con mente e cuore aperti.
Infatti, ogni persona che si siede al bancone porta con sé una storia, spesso intimamente legata al cibo che richiede, e tutte le volte -come per una sorta di tacito patto- avviene questo scambio tra pietanze e racconti di vita.
Che poi, a pensarci bene, non sono entrambe due diverse e complementari forme di nutrimento, del corpo una e l'altra dell'anima? Io credo di sì.
Il frutto di questo reciproco dare-avere si concretizza nelle pagine di questo manga che, tra disegni minimali e narrazione semplice, dolce e delicata, ha molto da lasciare al lettore -ultimo vertice di questo triangolo di relazioni. Man mano diventiamo anche noi assidui frequentatori del locale, conosciamo chi popola le strade della Tokyo notturna (una spogliarellista, il titolare di un gay bar, un gangster dal cuore tenero, una ragazza perennemente a dieta, vari personaggi dello spettacolo e tanti altri) e ci affezioniamo a ognuno di loro.
Non mi resta altro da dire, se non che vi consiglio questo fumetto con tutto il cuore. È possibile che terminato il libro avrete una sorta di crisi di astinenza, ma niente paura! Seguono altri due volumi e su Netflix trovate pure la serie tv (io inizio a guardarla questa sera).
Bel libro, ben scritto. Stile particolare, molto ironico. I personaggi sono favolosi.
Da un'intervista all'autrice:
“Una delle cose che tenevo a mente mentre lavoravo era chi fosse la mia protagonista. Naturalmente sotto molti aspetti sono io.
Quando avevo circa otto anni avevo un libro per bambini che si intitolava “My name is Lion”. Il protagonista è un bambino Navajo a cui viene data della carta a righe. E il libro dice “quando ti danno della carta a righe, scrivi contro le righe perché sono una prigione”.
La mia protagonista è femmina, in parte nativa americana e in parte messicana. Queste sono tutte cose non particolarmente rispettate, e lei lo sa. Sa che è povera, sa che non è integrata perché le piacciono i mostri e le piacciono le ragazze. Per cui lei non può scrivere tra le righe, deve contrastarle, deve essere libera. Questo libro è la dichiarazione della sua libertà. Questa è la cosa più importante. E ogni volta che ho pensato di poter fare diversamente, semplicemente non ho potuto.”
Non nego di essermi approcciata a quest'autobiografia con un'elevata dose di scetticismo. Ho letto quasi cento pagine con un sopracciglio alzato, in testa un unico pensiero: “cara Marina, non mi stai affatto convincendo”. Non mi piaceva lo stile troppo diretto e asciutto; faticavo a credere a tutto quello che leggevo.
Ogni volta che chiudevo il libro, però, mi ritrovavo i suoi occhi in copertina piantati dritti nei miei. È uno sguardo che ti inchioda e sembra volerti scavare dentro anche solo da una foto. E gli occhi, si sa, difficilmente mentono.
A pagina 97 ho trovato due righe che hanno segnato un cambio di rotta nel mio approccio: “Ridurre l'arte a decorazione era per me una solenne stronzata. Nell'arte a me interessava solo il contenuto: ciò che significava la data opera”. Mi sono detta: “ecco spiegato il motivo per cui scrive come mangia!”. È stato per me un segno enorme di coerenza e ho abbandonato quasi tutte le mie resistenze.
Mi sono lasciata lentamente conquistare dalla personalità di Marina, un misto di forza e vulnerabilità che prendono vita una dall'altra in un cerchio che si ripete continuamente. Dalle pagine è emerso il ritratto di una donna che ha sempre voluto vivere per la propria arte e che non ha avuto paura di spogliarsi di tutto, compresa se stessa, per raggiungere questo obiettivo. Una volta ottenuto il successo, poi, con grande umiltà ha iniziato a rimuovere se stessa dal proprio lavoro per renderlo universale e alla portata di tutti. Infine, ha consegnato tutto nelle mani del suo pubblico e si è rimessa alla volontà di chiunque fosse disposto ad ascoltarla: “Io ero lì per tutti coloro che erano lì. Mi era stata concessa una grande fiducia di cui non dovevo abusare in alcun modo. Le persone mi aprivano il loro cuore e in cambio, ogni volta aprivo il mio. Questa performance andava oltre la performance. Questa era vita. Può essere l'arte isolata dalla vita? Deve esserlo? Cominciai a essere sempre più convinta che l'arte deve essere vita - deve appartenere a tutti. Sentivo, con un'intensità mai provata prima, che ciò che avevo creato aveva uno scopo”.
Signore e signori, questa è Abramovic.
Una storia di libertà, il filo di un aquilone teso tra memoria e immaginazione.
Siamo a Cléry, paesino della Normandia, inizio anni '30. Ludo è un ragazzino orfano cresciuto dallo zio Ambroise, un postino pacifista che per hobby fabbrica aquiloni. Lila appartiene a una nobile famiglia polacca in decadenza e trascorre le estati a Cléry insieme ai genitori, al fratello Tad e all'amico Bruno. La buona sorte intreccia per sempre le loro vite, ma la pace non dura a lungo: dopo qualche anno interviene la Seconda Guerra Mondiale a scombinare la fortunata mano di carte sul tavolo. Da qui si dipana il racconto dolceamaro della resistenza normanna all'occupazione tedesca, sullo sfondo di un cielo puntellato da rombi di carta colorata.
Gli aquiloni sono da sempre metafora di libertà e questa, di fatto, è una storia che parla di liberazione.
Altre due parole ricorrono frequentemente nel testo: memoria e immaginazione. Vi lascio due esempi:
3,5
Fittonate estive e come assecondarle.
Quasi sempre con l'arrivo del caldo torna anche la voglia di tuffarmi tra le pagine di King. Non chiedetemi il perché dell'associazione: forse sento il bisogno di una penna fresca e scorrevole per contrastare l'afa estiva; forse lo stile del re dell'horror mi ricorda il movimento delle onde sulla battigia, costante oscillazione tra picchi spumosi e brevi risacche. Sta di fatto che così è stato spesso, e quest'anno non ha fatto eccezione.
Due i romanzi recuperati in versione e-book (entrambi intitolati con un nome proprio che inizia per “c”), 587 il numero complessivo di pagine, imprecisato -ma considerevole- il totale dei momenti in cui ho avuto la tachicardia superato solo dalla quantità di piantini che mi sono fatta, sia per l'uno che per l'altro libro.
Di seguito cosa ho apprezzato di
Il secondo viaggio in compagnia di Murakami non è andato come speravo. Norwegian wood mi aveva dato modo di empatizzare con i personaggi, di entrare pian piano nella storia e farla mia, ero riuscita a cogliere un messaggio chiaro e significativo da cui trarre qualcosa per me, per la mia vita. Quando ci si rispecchia nei libri in questo modo è impossibile non amarli.
Ero convinta di ritrovare le stesse cose anche in questo romanzo ma, si sa, le aspettative giocano brutti scherzi. A sud del confine, a ovest del sole mi è sembrato una pallida versione di Norwegian wood: le dinamiche si somigliano e i dialoghi sono ancora più infantili; i personaggi cercano ugualmente un proprio posto nel mondo, si tormentano con dubbi e domande incapaci di prendere decisioni ma alla fine risultano piatti; anche in questo romanzo la protagonista femminile è circondata da un alone di mistero che però infastidisce senza incuriosire; le sensazioni che mi ha lasciato sono le stesse ma mancano di intensità.
Ci sono comunque delle perle che non ho mancato di sottolineare!
In previsione dell'uscita di Lacci nelle sale il 1° ottobre, ho recuperato il libriccino di Starnone da cui è stato tratto il film. Scrivendo mi rendo conto che è difficile parlarne perché è tanto piccolo quanto denso e pieno di spunti di riflessione (continuo a pensare che i manuali di psicologia che si studiano all'università siano da integrare con la lettura di romanzi: se avessi dovuto proporne uno per l'esame che più mi è piaciuto della magistrale - Normalità e patologia nelle relazioni familiari - avrei scelto questo).
Anche solo il titolo si presta ad un discorso ampio: i lacci sono metafora del legame che unisce i protagonisti - un legame che, più che connettere, stringe in una morsa cui sembra impossibile sottrarsi; allo stesso tempo i lacci fanno riferimento ad un episodio concreto, descritto nel testo come qualcosa che consente ai membri della famiglia di identificarsi, di riconoscersi come parte di qualcosa.
L'altro giorno vi ho chiesto cosa, secondo voi, tiene in vita una relazione dopo tanto tempo e mi avete menzionato un sacco di cose diverse, tutte condivisibili. Ci ho riflettutto parecchio e sono arrivata alla conclusione che tutte hanno a che fare con il costruire insieme, col sentirsi parte di qualcosa che ciascuno contribuisce attivamente a tenere in piedi. Per fare ciò sono necessarie tutte le cose che mi avete scritto: stima, dialogo, ascolto, intimità, rispetto delle differenze, parità, condivisione di obiettivi e tanto altro ancora. È in questo modo che si costruisce, insieme.
Vanda, Aldo, Sandro e Anna non costruiscono, distruggono. Nonostante la stretta del legame familiare che li unisce, sono come rette che viaggiano in parallelo, non si sentono una famiglia. E così i lacci, più che appiglio salvifico, diventano strumento di tortura e rivendicazione.
Il giorno di Halloween ho deciso di immergermi tra le pagine di un classico della letteratura noir. Non è un titolo molto visto qui su instagram e forse i nomi di Boileau e Narcejac non vi dicono nulla, ma aspettate! Scommetto che tutti avete presente il film di Hitchcock “Vertigo. La donna che visse due volte”. Ecco, la sceneggiatura è stata tratta dall'omonimo romanzo, scritto a quattro mani proprio da questi due autori francesi.
Fatte le presentazioni, veniamo a I diabolici! L'intreccio mi ha ricordato molto i gialli di Simenon ma l'atmosfera è decisamente più cupa. Inizialmente, Ravinel concepisce l'omicidio come soluzione ad una vita monotona e insoddisfacente. Tuttavia, l'evento si trasforma in trauma e rimane incistato nella fragile psiche dell'uomo; i sensi di colpa e la graduale perdita dell'esame di realtà sono conseguenze che lo trascineranno in un turbine ossessivo e delirante da cui sembra impossibile uscire.
La nebbia è presenza costante - reale e concreta, certo, ma anche metafora della progressiva confusione di Ravinel. In mezzo alla foschia si materializzano fantasmi, attuali e passati, che si confondono tra loro e con la realtà. Grazie ad una narrazione incalzante e al susseguirsi di un colpo di scena dietro l'altro arriviamo all'apice della tensione e al ribaltamento dei ruoli tra carnefice e vittima.
Ho divorato questo libro in due sere e mi è piaciuto molto, per cui ve lo super consiglio!
“Una volta trascorso un certo periodo di tempo, non c'è più nulla che si possa《mettere a posto》tra gli esseri umani. Si vive, e nel frattempo si ripara, si aggiusta, si edifica e più tardi qualche volta si distrugge la propria esistenza; ma con il passare del tempo ci si accorge che l'insieme, così come si è formato a causa degli errori e grazie all'intervento del caso, non è modificabile. Quando qualcuno riemerge dal passato per annunciare con voce commossa di voler mettere a posto ogni cosa, si può soltanto compiangerlo, o sorridere delle sue intenzioni; il tempo ha già messo a posto tutto, a modo suo, nell'unico modo possibile.”
Amici, ormai saprete che cerco sempre di trarre il meglio dalle letture che faccio anche quando non mi convincono o addirittura deludono le mie aspettative. Penso che ciascun libro possa quantomeno darmi degli spunti su cui riflettere e con questo romanzo di Márai è andata così: non l'ho trovato all'altezza di ciò che avevo già letto dell'autore ma mi ha comunque lasciato qualcosa.
Ho riflettuto molto sul comportamento della protagonista, Eszter, e sul fatto che a molti - me compresa, almeno in un primo momento - le sue decisioni siano risultate fastidiosamente incomprensibili, quasi ingiustificabili. Ha amato un solo uomo nella sua vita, Lajos, che si è comportato male con lei, l'ha ferita e poi abbandonata. Eppure, quando dopo vent'anni Eszter riceve la notizia che Lajos sta per tornare la prima reazione è quella di accoglierlo a braccia aperte. Le scelte della protagonista sono definite da una sorta di ineluttabilità e se ci appaiono indecifrabili è perché, a mio parere, manca una buona caratterizzazione psicologica del personaggio.
A voi non è mai successo di riaprire le porte al passato anche quando quello che ci stava dietro probabilmente non meritava una seconda possibilità? A me sì e non me ne pento. In linea con la citazione che ho riportato sopra, credo che sia il tempo a dettare il limite tra ciò che si può《mettere a posto》e ciò che va semplicemente accettato per quello che è. Quando decidiamo di aprire la porta è forse perché non abbiamo ancora superato quel limite?
Che ne pensate?
È un 4.5. Struggente e appassionato. 83 pagine cariche di sentimenti che lasciano scosso chi legge, tanto quanto l'uomo che riceve la lettera.
Mi sono approcciata a questo libro con un certo timore, anche reverenziale se vogliamo (stiamo pur sempre parlando del romanzo vincitore del primo Premio Strega della storia). A preoccuparmi era soprattutto l'aspetto stilistico: pensavo che mi sarei trovata al cospetto di una scrittura densa e articolata, di una penna difficile da capire e accogliere nella dovuta maniera. Immaginate il mio stupore nel vedere interi paragrafi scorrere fluidi e chiari davanti ai miei occhi, pur mantenendo un sottofondo di semplice e poetica eleganza.
L'immediata e naturale conseguenza è stata far accomodare Flaiano alla destra di Calvino nella mia personale Trinità del Novecento letterario italiano (maschile -sto ancora lavorando sul trio femminile, aiutandomi soprattutto con gli spunti forniti da Giuli de @il_paratesto).
Secondo errore di valutazione che ho fatto è stato supporre che questo romanzo parlasse di storia, politica e società. In realtà -e oramai avrete capito quanto, in questo caso, la realtà superi di gran lunga le aspettative- il libro tocca tutti questi elementi solo di riflesso perché Flaiano si limita a riportare la voce e i pensieri di un ufficiale dell'esercito italiano in tutta la loro soggettività. Mi aspettavo un romanzo storico e invece mi sono trovata fra le mani un libro di matrice esistenzialista che, tuttavia, ha saputo restituirmi il sentimento di un'intera epoca.